“Io, mamma, costretta a dimettermi” è il titolo dell’articolo, apparso lo scorso 16 giugno nell’edizione locale de La Nazione, che ha sollecitato la comunicazione della consigliera Antonella Cotti durante l’ultima seduta del Consiglio comunale. L’obiettivo era stimolare una riflessione, ma anche una presa di coscienza, da parte dell’amministrazione e più in generale della politica, sul tema dell’inconciliabilità tra lavoro e maternità.
Nel 2023, solo a Pistoia, sono state 161 le donne che hanno fatto ricorso alle dimissioni per poter accudire la prole. Ma perché una donna è costretta a dimettersi? I motivi sono molteplici: maggiore precarietà lavorativa, salari più bassi, una rete di asili nido insufficiente (e gli interventi previsti dal PNRR tardano ad arrivare), poche scuole materne.
La maternità provoca emarginazione oltre che avanzamenti di carriera più difficoltosi, manca un sostegno concreto all’imprenditoria femminile, mancano i congedi parentali paritari e obbligatori per tutti e il mercato del lavoro è sempre più avido, con orari dilatati che mal si conciliano con una famiglia.
In Italia il tasso di occupazione femminile è fermo al 52%, ben 14 punti percentuale al di sotto della media europea. Se crescesse fino a raggiungerla, il Pil del nostro Paese aumenterebbe del 7,4%. Ma purtroppo la presidente Meloni non ha intenzione di battersi per i diritti delle donne: l’unica cosa concreta che ha fatto è stata permettere l’ingresso nei consultori degli antiabortisti e dei movimenti pro-vita mentre le condizioni di precarietà del lavoro femminile sono immutate e nelle regioni governate dalla destra non è garantita la possibilità di interrompere la gravidanza con la pillola RU-486 nonostante le linee guida del ministero della Sanità, che prevedono la possibilità di ricorrere a questa soluzione anche senza ricovero ospedaliero.