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I democratici appaiono come un pesce in barile e il loro segretario un novello San Sebastiano infilzato, sul fianco destro, da Fini e Casini e, su quello sinistro, da Di Pietro e Vendola, ovvero dalle alchimie del politicismo neo-democristiano e dai facili personalismi delle primarie di coalizione all’amatriciana. Due modi ugualmente efficaci per morire tra delusioni maliziose e interessati scoramenti.
Eppure, se alzassimo lo sguardo potremmo scoprire un’altra prospettiva: Bersani ha accettato di pagare un prezzo in termini di consenso al suo partito, in quanto sta seguendo una precisa linea politica, non priva di risultati già nell’immediato. Egli infatti non ha scelto la strada più facile, quella di collocare il partito nel recinto dell’opposizione di sinistra al Cavaliere, tra Di Pietro e Vendola, ma ha voluto situarlo al centro di tutte le opposizioni al berlusconismo.
A suo modo di vedere è preferibile un Pd “basso” sul piano elettorale, ma nel cuore delle possibili alternative al Cavaliere, che non un Pd “alto”, ma isolato a sinistra (dove in tanti lo vorrebbero). In questa maniera si è lasciato aperto il maggior ventaglio di alleanze possibili nella convinzione che i voti non valgono solo in base alla loro quantità, ma se hanno un valore intrinseco, ossia se possono essere spesi in diversi scenari che a tutt’oggi non sono ancora definibili per modalità e tempi e certo non dipendono da lui.
Ma perché Bersani avrebbe accettato di pagare questo prezzo e quali risultati che sta raggiungendo? Anzitutto, lo ha fatto per offrire una sponda a Fini. Nel giro di sei mesi il presidente della Camera è uscito dal Pdl, ha fondato un nuovo partito, ha ritirato i ministri dal governo e ora sfiducia il suo antico alleato, in un quadro di palese antagonismo alla leadership del Cavaliere.
Se Fini non avesse trovato il Pd dove lo ha incontrato, ossia disponibile a un governo di responsabilità nazionale per cambiare la legge elettorale, non avrebbe mai avuto la forza di sfidare Berlusconi a viso aperto, anche perché Casini non avrebbe esitato un attimo a sostituirlo nel governo, peraltro restituendogli pan per focaccia. Non a caso lo spauracchio di una maggioranza alternativa è già operativo in Parlamento, ma potrebbe scattare anche in caso di elezioni, in un quadro emergenziale, come abilmente ventilato dal capogruppo Franceschini, avversario di Bersani alle primarie, entrato nella maggioranza del partito rafforzando il segretario.
Dal suo punto strategico Bersani sta ottenendo il logoramento di Berlusconi per interposta persona (tramite Fini e Casini), ma senza rompere con Di Pietro e Vendola. Egli sta combattendo come un lottatore di Sumo che sfrutta a suo vantaggio la forza dell’avversario, opponendo la resistenza del proprio peso elettorale, che resta considerevole, e continuando a occupare il centro del quadrato di gara.
Non ha insistito, come il suo predecessore, lungo la strada di un accordo bipolare ad excludendum con Berlusconi, bensì ha favorito la disseminazione del campo politico in più forze intermedie, a cui è disposto a regalare qualcosa del suo, pur di aumentare le possibilità di battere l’avversario per via parlamentare (se si formasse un governo senza Berlusconi, con Fini e Casini dentro, o una nuova maggioranza che comprendesse anche il Pd) oppure per via elettorale (nel caso di elezioni).
In secondo luogo, Bersani con la sua originale collocazione sta condizionando la nascita del terzo polo: qualora l’alleanza tattica tra i transfughi del berlusconismo, Fini e Casini (i due traditori nella prevedibile campagna del Cavaliere), si trasformasse in un cartello elettorale, non solo non avrebbero alcuna possibilità di conseguire il premio di maggioranza, ma leverebbero più voti a Berlusconi che a Bersani, dunque favorendo il suo successo nel caso in cui si andasse a elezioni con queste regole.
Per questa ragione, per cambiare la legge elettorale, hanno più bisogno Fini e Casini del Pd che non il contrario. Il posizionamento di Bersani poggia su un primo convincimento: Berlusconi non si batte con l’antiberlusconismo e basta o dentro una logica frontista, perché in Italia la destra ha un radicamento e una forza che sarebbe sciagurato sottovalutare. Bersani è convinto che la mela del berlusconismo sia ormai bacata, ma non è ancora pronta a cadere a terra e bisogna continuare a scuotere l’albero.
Il segretario del Pd può permettersi questa tattica all’apparenza rinunciataria perché parte da una seconda valutazione di fondo: con questa legge elettorale, nessuna alternativa al Cavaliere è possibile senza coinvolgere il Pd, quel fastidiosissimo 25% (che sia il 23% o il 28% poco importa sul piano della qualità dell’azione politica) che dispiace a tanti perché non è un voto di opinione, ma anch’esso, proprio come quello del Pdl, un blocco sociale e culturale, un impasto di tradizioni, valori e interessi distribuiti a livello nazionale e, qui è l’originalità, fondati sull’autonomia della politica, non sul suo discredito o la sua subalternità.
Bersani sa bene che Berlusconi in questo paese fa comodo a tanti perché li fa sentire migliori senza il minimo sforzo.
L’ultimo Gaber l’aveva capito bene quando cantava «Destra-Sinistra, basta!», mentre la moglie Ombretta Colli governava la provincia di Milano con Forza Italia. Del resto, l’indimenticato chansonnier meneghino fischiettava: «Io direi che il culatello è di destra e la mortadella è di sinistra». Il che potrebbe anche esser vero, ma l’anello che non tiene è proprio qui: “culatello Bersani” è cresciuto a pane e mortadella e, per quanto paziente e persino generoso, non è nato ieri. Sarebbe bene non sottovalutarlo.